Avvocato Domenico Esposito
 

REVOCABILITA’ DEL FONDO PATRIMONIALE TRA CONIUGI, CONDIZIONI

 

La sentenza riguarda una fattispecie in cui un atto di costituzione di un fondo patrimoniale destinato alla famiglia è stato revocato, su istanza dei creditori, sulla considerazione:

  1. del brevissimo lasso di tempo - meno di quattro mesi - tra la data di costituzione del fondo patrimoniale e quella dell’insorgenza del debito;
  2. dalla mancata giustificazione della costituzione del fondo, effettuata pur versando i coniugi in regime patrimoniale di separazione dei beni;
  3. dal tempo in cui è stato costituito il fondo, cioè dopo oltre 13 anni dal matrimonio
  4. dalla circostanza che il fondo è stato costituito sugli unici beni immobili di proprietà dei debitori;
  5. dall'essere la moglie formalmente estranea alla società del marito «circostanza deponente per la volontà della S. A. di vincolare la quota di tutti i suoi beni al soddisfacimento dei "bisogni della famiglia" in quanto la medesima ben sapeva che "poco tempo dopo si sarebbe obbligata, con la prestazione della garanzia fideiussoria, nei confronti della Banca, al fine di indurla a concedere credito alla società amministrata dal marito».

Queste circostanze sono state ritenute indizi gravi, precisi e concordanti dell’intento di vanificare le ragioni del creditore.

La sentenza è stata evidenziata in grassetto al fine di rendere immediatamente visibili le parti ritenute più rilevanti.

 

Corte di Cassazione, Sez. III Civile 7 ottobre 2008, n. 24757

omissis
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il 1^ motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 2907 c.c., artt. 99 e 112 c.p.c., in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Si duole che il tribunale abbia pronunziato l'inefficacia della costituzione del fondo patrimoniale de quo senza considerare che l'intervenuta Banca (…) ha chiesto emettersi nei propri confronti declaratoria di inefficacia di tale atto ex art. 2901 c.c., limitatamente alla quota dei beni del (…) e (…) che la corte di merito abbia successivamente confermato tale pronunzia.

Il motivo è sotto plurimi profili inammissibile.
Come anche le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto modo di affermare, perché possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronunzia è necessario, da un lato, che al giudice di merito siano state rivolte una domanda o un'eccezione autonomamente apprezzabili, e, dall'altro, che tali domande o eccezioni siano state per il principio dell'autosufficienza riportate puntualmente, nei loro esatti termini, nel ricorso per cassazione, con l'indicazione specifica altresì dell'atto difensivo o del verbale di udienza nei quali le une o le altre sono state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primo luogo, la ritualità e la tempestività, e, in secondo luogo, la decisività (v. Cass., 19/3/2007, n. 6371; Cass., Sez,. Un., 28/7/2005, n. 15781).

Del pari, se è vero che allorquando viene denunciato un error in procedendo - quale indubbiamente è il vizio di ultra o extrapetizione - la Corte di Cassazione è anche giudice del fatto ed ha il potere-dovere di esaminare direttamente gli atti di causa, tuttavia per il sorgere di tale potere-dovere è necessario, non essendo il predetto vizio rilevabile ex officio, che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il "fatto processuale" di cui richiede il riesame, e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari a individuare la dedotta violazione processuale (v. Cass., 19/3/2007, n. 6440; Cass., 23/1/2004, n. 1170), in quanto il diretto esame degli atti processuali è sempre condizionato ad un apprezzamento preliminare della decisività della questione (v. Cass., 16/4/2003, n. 6055).

Orbene, tali principi risultano invero non osservati nel caso dalla ricorrente.
Come si evince dall'impugnata sentenza, a fronte dell'affermazione del giudice di prime cure che "la costituzione del fondo patrimoniale... aveva costituito doloso atto di disposizione con il quale (…) e (…) avevano recato pregiudizio alle ragioni creditorie della Banca (…) e della Banca (…), ed alla conseguente declaratoria di inefficacia ai sensi dell'art. 2901 c.c., di tale atto, "Con atto di citazione notificato il 15/18.3.2002, C. L. e S. A. proponevano appello... e in riforma dell'impugnata sentenza... chiedevano che le domande della Banca (…). e della Banca (…)".

Orbene, nella specie la ricorrente omette invero di indicare in quale momento del giudizio del gravame di merito e con quale atto la pronunzia di primo grado sia stata impugnata per violazione dell'art. 112 c.p.c., sotto il profilo della relativa mancata limitazione "alla quota dei beni del C. L.".

Nè tale censura viene debitamente riportata nel ricorso. Oltre che per violazione del principio di autosufficienza (da ultimo v. Cass., 17/1/2007, n. 978), l'inammissibilità discende dalla violazione del principio in base al quale i motivi del ricorso per cassazione debbono investire questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio d'appello, non essendo per la prima volta in sede di legittimità prospettabili questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d'ufficio (v. Cass., 14/6/2007, n. 13958; Cass., 1/4/2006, n. 8624; Cass., 7/8/2001, n. 10902).

Ciò in quanto i motivi di appello concorrono a determinare l'oggetto del relativo giudizio e, per questo profilo, incidono sullo stesso esercizio del potere d'impugnazione, non potendo considerarsi sottoposti all'esame del giudice del gravame i capi della sentenza di primo grado che non siano stati in concreto oggetto di specifiche censure nell'atto di appello (v. Cass., 7/7/2006, n. 15519; Cass., 16/5/2006, n. 11356; Cass., 2/12/2005, n. 26234; Cass., Sez. Un., 28/7/2005, n. 15781).

Non essendo - come detto - rilevabile d'ufficio la violazione dell'art. 112 c.p.c., in cui sia incorsa la sentenza di primo grado per non aver pronunziato su una domanda della parte, laddove non abbia formato oggetto di uno specifico motivo di appello essa non può essere pertanto dedotta per la prima volta in sede di ricorso per cassazione (v. Cass., 10/5/1999, n. 4612; Cass., 26/271994, n. 1977. In termini generali v. altresì Cass., 1/3/1995, n. 2320; Cass., 4/9/2000, n. 11559).

D'altro canto, si noti, anche laddove (diversamente che nella specie) si tratti di questione rilevabile d'ufficio (come ad esempio in presenza di una nullità), questa Corte ha già avuto modo di precisare che la rilevabilità d'ufficio va in ogni caso coordinata con i principi generali del processo, sicché il rilievo ex officio resta precluso per effetto del giudicato interno formatosi in conseguenza della pronunzia esplicita sulla questione ovvero della definizione implicita della stessa (v. Cass., 19/1/2002, n. 194;
Cass., 17/7/1965, n. 1586. V. anche, in termini generali, Cass., 16/5/2006, n. 11356; Cass., 10/10/2007, n. 21226).

Con il 2^ motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2901 e 2729 c.c., in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonché omissione, insufficienza e contraddittorietà della motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5..

Si duole che la corte di merito abbia ritenuto sussistente la prova della consapevolezza della S. A. in ordine alla situazione debitoria della società e alla dolosa volontà di sottrarre il bene alla garanzia generica del creditore, argomentando dalla circostanza di aver prestato fideiussione dopo 4 mesi dalla costituzione del fondo patrimoniale, nonché sulla base del rilievo della sua estraneità alla società.

Lamenta che tale giudice ha ritenuto provati i fatti costitutivi della revocatoria ex art. 2901 c.c., sulla base di presunzioni prive dei requisiti ex art. 2729 c.c..

Il motivo è infondato.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (v. Cass., 17/1/2007, n. 966), la costituzione del fondo patrimoniale può essere dichiarata inefficace nei confronti dei creditori a mezzo di azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. (v. Cass., 7/3/2005, n. 4933; Cass., 2/8/2002, n. 11537; Cass., 21/5/1997, n. 4524; Cass., 2/9/1996, n. 8013; Cass., 18/3/1994, n. 2604), volta a tutelare il creditore rispetto agli atti del debitore di disposizione del proprio patrimonio, senza alcun discrimine circa lo scopo ulteriore da quest'ultimo avuto di mira nel compimento dell'atto dispositivo (a tale stregua considerandosi soggetti all'azione revocatoria anche gli "atti aventi un profondo valore etico e morale", come ad es. il trasferimento della proprietà di un bene effettuato a seguito della separazione personale per adempiere al proprio obbligo di mantenimento nei confronti dei figli e del coniuge, in favore di quest'ultimo: in tali termini v. Cass., 26/7/2005, n. 15603).

La costituzione del fondo patrimoniale prevista dall'art. 167 c.c., che va compresa tra le convenzioni matrimoniali, comporta invero, in presenza di figli minori, un limite di disponibilità di determinati beni, vincolati a soddisfare i bisogni della famiglia (v. Cass., 28/11/2002, n. 16864; Cass., 1/10/1999, n. 10859).

A tale stregua essa limita l'aggredibilità dei beni conferiti solamente alla ricorrenza di determinate condizioni (art. 170 c.c.), rendendo più incerta o difficile la soddisfazione del credito, conseguentemente "riducendo la garanzia generale spettante ai creditori sul patrimonio dei costituenti (v. da ultimo Cass., 15/272007, n. 3470; Cass., 17/1/2007, n. 966; Cass., 15/3/2006, n. 5684), in violazione dell'art. 2740 c.c., che impone al debitore di rispondere con tutti i suoi beni dell'adempimento delle obbligazioni, a prescindere dalla relativa fonte.

E quindi anche se le stesse derivino dalla legge (come ad es. in tema di mantenimento del coniuge e dei figli minori: v. Cass., 26/7/2005, n. 15603).

Le condizioni per l'esercizio dell'azione revocatoria ordinarie, consistono nell'esistenza di un valido rapporto di credito tra il creditore che agisce in revocatoria e il debitore disponente; nell'effettività del danno, inteso come lesione della garanzia patrimoniale a seguito del compimento da parte del debitore dell'atto traslativo; nella ricorrenza, in capo al debitore, ed eventualmente in capo al terzo, della consapevolezza che, con l'atto di disposizione venga a diminuire la consistenza delle garanzie spettanti ai creditori (v., con riferimento ad ipotesi di cessione di beni al coniuge, contestualmente al mutamento del regime patrimoniale di comunione legale in quello della separazione dei beni, Cass., 16/12/2005, n. 27718).

L'actio pauliana ha la funzione non solo di ricostituire la garanzia generica assicurata al creditore dal patrimonio del suo debitore, al fine di permettergli il soddisfacimento coattivo del suo credito (sicché la relativa sentenza ha efficacia retroattiva, in quanto l'atto dispositivo è viziato sin dall'origine: v. Cass., 23/9/2004, n. 19131), ma anche di assicurare uno stato di maggiore fruttuosità e speditezza dell'azione esecutiva diretta a far valere la detta garanzia (v. Cass., 9/3/2006, n. 5105).

In presenza di atto a titolo gratuito, qual è la costituzione di fondo patrimoniale (stante l'assenza di una corrispondente attribuzione in favore dei disponenti (v. Cass., 8/8/2007, 17448; Cass., 7/7/2007, n. 15310; Cass., 17/1/2007, n. 966; Cass., 23/3/2005, n. 6267; Cass., 20/6/2000, n. 8379), anche quando è posta in essere dagli stessi coniugi (v. Cass., 7/3/2005, n. 4933; Cass., 22/1/1999, n. 591; Cass., 18/3/1994, n. 2604; Cass., 15/1/1990, n. 107), giacché essa non può considerarsi integrare l'adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge), ai fini dell'esperimento della revocatoria ordinaria sono necessarie e sufficienti le condizioni di cui all'art. 2901 c.c., n. 1, (cfr. Cass., 17/6/1999, n. 6017).

Nell'ambito della nozione lata di "credito" ivi accolta, non limitata in termini di certezza, liquidità ed esigibilità bensì estesa fino a comprendere le legittime ragioni o aspettative di credito coerentemente con la funzione propria dell'azione (la quale non persegue scopi specificamente restitutori bensì mira - come detto - a conservare la garanzia generica sul patrimonio del debitore in favore di tutti i creditori, inclusi quelli meramente eventuali: v. Cass., 29/10/1999, n. 12144; Cass., 24/7/2003, n. 11471), è certamente da considerarsi ricompresa la fideiussione (v. Cass., 17/1/2007, n. 966).

Avendo l'azione revocatoria ordinaria la funzione di ricostituzione della garanzia generica assicurata al creditore dal patrimonio del suo debitore, e non anche della garanzia specifica, ne consegue che deve ritenersi sussistente l'interesse del creditore, da valutarsi ex ante - e non con riguardo al momento dell'effettiva realizzazione -, a far dichiarare inefficace un atto che renda maggiormente difficile e incerta l'esazione del suo credito, sicché per l'integrazione del profilo oggettivo dell'eventus damni non è necessario che l'atto di disposizione del debitore abbia reso impossibile la soddisfazione del credito, determinando la perdita della garanzia patrimoniale del creditore, ma è sufficiente che abbia determinato o aggravato il pericolo dell'incapienza dei beni del debitore, e cioè il pericolo dell'insufficienza del patrimonio a garantire il credito del revocante ovvero la maggiore difficoltà od incertezza nell'esazione coattiva del credito medesimo.

Ad integrare il pregiudizio alle ragioni del creditore (eventus damni) è a tale stregua sufficiente una variazione sia quantitativa che meramente qualitativa del patrimonio del debitore (v. Cass., 18/3/2005, n. 5972; Cass., 27/10/2004, n. 20813; Cass., 29/10/1999, n. 12144), e pertanto pure la mera trasformazione di un bene in altro meno agevolmente aggredibile in sede esecutiva, com'è tipico del danaro (v. Cass., 17/1/2007, n. 966), in tal caso determinandosi il pericolo di danno costituito dalla eventuale infruttuosità di una futura azione esecutiva (v. Cass., 7/7/2007, n. 15310; Cass., 15/272007, n. 3470; Cass., 1/6/2000, n. 7262).

Il riconoscimento dell'esistenza dell'eventus damni non presuppone peraltro una valutazione sul pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore istante, ma richiede soltanto la dimostrazione da parte di quest'ultimo della pericolosità dell'atto impugnato, in termini di una possibile, quanto eventuale, infruttuosità della futura esecuzione sui beni del debitore (v. Cass., 9/3/2006, n. 5105).

Non essendo richiesta, a fondamento dell'azione di azione revocatoria ordinaria, la totale compromissione della consistenza patrimoniale del debitore, ma soltanto il compimento di un atto che renda più incerta o difficile la soddisfazione del credito, l'onere di provare l'insussistenza di tale rischio, in ragione di ampie residualità patrimoniali, incombe allora, secondo i principi generali, al convenuto nell'azione di revocazione che eccepisca l'insussistenza, sotto tale profilo, dell'eventus damni (v. Cass., 18/3/2005, n. 5972; Cass., 6/8/2004, n. 15257; Cass., 24/7/2003, n. 11471).

Quanto al requisito soggettivo, quando l'atto di disposizione è anteriore al sorgere del credito, ai sensi dell'art. 2901 c.p.c., comma 1, n. 1, è necessaria la dolosa preordinazione dell'atto da parte del debitore al fine di pregiudicarne il soddisfacimento.

Diversamente da quanto da questa Corte in altra occasione affermato, ed anche autorevolmente sostenuto in dottrina, non è al riguardo invero necessario il dolo specifico, e cioè la consapevole volontà del debitore di pregiudicare le ragioni del creditore. Non è cioè necessaria la volontà del debitore (alla data di stipulazione) di contrarre debiti ovvero la consapevolezza da parte sua del sorgere della futura obbligazione, e che l'atto dispositivo venga compiuto al fine di porsi in una situazione di totale o parziale impossidenza, in modo da precludere o rendere difficile al creditore l'attuazione coattiva del suo diritto (cfr. Cass., 27/2/1985, n. 1716).

Deve per converso ritenersi al riguardo sufficiente invero il dolo generico, sostanziantesi nella mera previsione del pregiudizio dei creditori.

Come non si è mancato di porsi del pari autorevolmente in rilievo in dottrina, ad integrare l'animus nocendi previsto dalla norma è da ritenersi invero sufficiente che il debitore compia l'atto dispositivo nella previsione dell'insorgenza del debito e del pregiudizio (come detto da intendersi anche quale mero pericolo dell'insufficienza del patrimonio a garantire il credito del revocante ovvero la maggiore difficoltà od incertezza nell'esazione coattiva del credito medesimo) per il creditore (cfr. Cass., 23/9/2004, n. 19131).

Trattandosi di un atteggiamento soggettivo, tale elemento psicologico va provato dal soggetto che lo allega, e può essere accertato anche mediante il ricorso a presunzioni, il cui apprezzamento è devoluto al giudice di merito, ed è incensurabile in sede di legittimità in presenza di congrua motivazione (v. in particolare Cass., 21/9/2001, n. 11916).

Orbene, di tali principi la corte di merito ha nel caso fatto invero puntuale e corretta applicazione.
Risulta infatti nell'impugnata sentenza posto in rilievo come il fondo patrimoniale sia stato nel caso dalla ricorrente (…) costituito in epoca anteriore all'assunzione dell'obbligo "della garanzia fideiussoria, nei confronti della Banca (…).

Quanto al profilo soggettivo, correttamente - alla stregua di quanto sopra rilevato ed esposto - se ne è ravvisata la sussistenza nella specie argomentando:

a) dal brevissimo lasso di tempo - meno di quattro mesi - tra la data / 24.2.1998) di costituzione del fondo patrimoniale e quella (18.6.1998) del rilascio della garanzia fideiussoria da parte della predetta appellante alla Banca (…)", circostanza deponente per la volontà della S. A. di vincolare la quota di tutti i suoi beni al soddisfacimento dei "bisogni della famiglia" in quanto la medesima ben sapeva che "poco tempo dopo si sarebbe obbligata, con la prestazione della garanzia fideiussoria, nei confronti della Banca, al fine di indurla a concedere credito alla società amministrata dal marito;

b) dalla mancata giustificazione della costituzione del fondo, effettuata pur versando i coniugi in regime patrimoniale di separazione dei beni, e dopo oltre 13 anni dal matrimonio sugli unici beni immobili in loro proprietà;

c) dall'essere "la (…) formalmente estranea alla società R.D.C. elettronica".

Circostanze ritenute costituire in effetti indizi gravi, precisi e concordanti nel senso che i coniugi (…) e (…) hanno costituito gli unici immobili di loro proprietà in fondo patrimoniale al solo scopo di vanificare le ragioni di credito delle banche appellate.

Infondate ed inconferenti si appalesano pertanto al riguardo le doglianze della ricorrente.
In particolare, laddove nell'apoditticamente affermare che "non si comprende proprio come dai fatti di causa si potesse dedurre l'esistenza del consilium fraudis", la medesima deduce che "Va quindi dimostrato, in tale ipotesi, il dolo specifico, dovendo l'atto risultare come lo strumento di una macchinazione realizzata dal debitore ai fini frodatori".

Ancora, laddove lamenta essere la corte di merito "giunta a ritenere provati i fatti costitutivi della fattispecie normativa di cui all'art. 2901 c.c., attraverso presunzioni che non presentano i requisiti di cui all'art. 2729 c.c.", deducendo (in termini di apodittica contrapposizione, in sede di legittimità invero non consentita) che ai "fatti emersi e non contestati nel presente giudizio e cioè il lasso temporale intercorso tra costituzione del fondo patrimoniale e prestazione della fideiussione, la convivenza... con il marito e la costituzione del fondo patrimoniale dopo alcuni anni dal matrimonio, non raggiungono quel grado di gravità richiesto dall'art. 2729 c.c., per ritenere che... fosse consapevole della posizione finanziaria della società di cui il marito era amministratore (scientia damni) e di conseguenza della consapevolezza di arrecare pregiudizio ai creditore (scientia fraudis)".

All'inammissibilità ed infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.
Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 3.600,00, di cui Euro 3.500,00 per onorari, in favore di ciascuno dei resistenti, oltre; a spese generali ed accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 28 maggio 2008.
Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2008